Necessità inchiesta Covid Bergamo
  • Si contestano la volontà di riscrivere la storia, l’invasione di campo del potere esecutivo sul potere giudiziario, la fragilità dell’impianto dell’intera inchiesta.
  • Dunque hanno sbagliato i giudici di Bergamo? Lo diranno le fasi successive del procedimento semmai si arriverà a un rinvio a giudizio e a un processo.
  • Comunque un risultato lo hanno almeno raggiunto: quello di porre all’attenzione la necessità di rivedere il nostro codice penale, il codice Rocco di epoca fascista, entrato in vigore nel 1930, quasi un secolo fa.

Come al solito, quando sono coinvolti personaggi eccellenti, scattano accuse di protagonismo ai magistrati. Non succede diversamente con i procuratori di Bergamo che hanno emesso 19 avvisi di chiusura delle indagini per politici e tecnici al termine dell’inchiesta sulla prima ondata della pandemia durante la quale, in due mesi, si sono contati nella provincia lombarda più di seimila morti. Si contestano la volontà di riscrivere la storia, l’invasione di campo del potere esecutivo sul potere giudiziario, la fragilità dell’impianto dell’intera inchiesta.

Partiamo da quest’ultima considerazione, l’unica ad avere una qualche fondatezza. Il reato principale per cui sono indagati l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, l’ex ministro della Salute Roberto Speranza, il presidente della Lombardia Attilio Fontana, l’ex assessore al Welfare della stessa regione Giulio Gallera, i membri del Comitato tecnico scientifico, è quello di epidemia colposa.

Un reato «a condotta vincolata» come si dice nel linguaggio settoriale. Che significa? Che «il fatto deve essere commesso nella forma presa in considerazione dal legislatore». I riferimenti, nel nostro caso, sono agli articoli 438 e 452 del codice penale dove sta scritto: «Si punisce chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni».

Sulla scorta di questo dettame l’orientamento prevalente della Corte di cassazione stabilisce che debba esserci una «condotta attiva». Lo stesso procuratore capo di Bergamo ha ammesso che «c’è un problema di configurabilità del reato, ne siamo consapevoli».

Ma ha aggiunto: «Di fronte alle migliaia di morti e alle conseguenze che ci dicono che potevano essere evitati non potevamo chiudere con una richiesta di archiviazione». E sembra una risposta al desiderio di “giustizia” reclamato fin da subito dai parenti delle vittime, costituitisi in associazione già tre anni fa. Decine di altri fascicoli analoghi aperti in tutta Italia si sono chiusi proprio con l’archiviazione.

IL CODICE DA RIVEDERE

Dunque hanno sbagliato i giudici di Bergamo? Lo diranno le fasi successive del procedimento semmai si arriverà a un rinvio a giudizio e a un processo. Comunque un risultato lo hanno almeno raggiunto: quello di porre all’attenzione la necessità di rivedere il nostro codice penale, il codice Rocco di epoca fascista, entrato in vigore nel 1930, quasi un secolo fa.

La precedente pandemia, la famosa “spagnola”, risale al periodo 1918-1920, e dunque il Covid-19 è stato il primo caso di portata epocale a dover essere giudicato secondo i dettami di un codice penale che denuncia tutta la sua vetustà.

Ovviamente è ridicolo immaginare Conte, o Speranza, o Fontana, o Gallera che vanno in giro a “diffondere germi patogeni”. Ma c’è da chiedersi, sulla scorta della carneficina dei mesi di marzo-aprile 2020: è solo “diffondendo germi” che si compie un delitto?

Non sarebbe il caso di riscrivere gli articoli immaginando che vadano sanzionati anche comportamenti negligenti, omissioni, ritardi, sciatteria, quando si ricoprono ruoli di responsabilità nel settore specifico?

Nella relazione del professor Andrea Crisanti, consulente dei pm di Bergamo e oggi parlamentare del Pd, si calcola, ad esempio, che l’istituzione della zona rossa nella Bassa Valseriana «il giorno 27 febbraio o il giorno 3 marzo avrebbe permesso di evitare, con una probabilità del 95 per cento, rispettivamente 4.148 e 2.659 decessi».

Il 27 febbraio è la data in cui «il Comitato tecnico scientifico e la regione Lombardia erano diventati consapevoli della gravità della situazione». La zona rossa, si sa, non fu mai decisa nonostante fossero stati ammassati centinaia di militari che attendevano solo l’ordine di sigillare la Valle Seriana, in particolare i comuni di Alzano Lombardo e Nembro.

Lo stesso Crisanti lancia strali pesanti contro tre tecnici, il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro, il membro del Comitato scientifico Agostino Miozzo, il direttore generale della programmazione sanitaria del ministero della Salute Andrea Urbani, i quali non avevano nemmeno letto «almeno fino a maggio giugno» il piano pandemico nazionale benché ne avessero ricevuto copia a febbraio del 2020. Dunque non ne ordinarono l’applicazione.

UN PIANO MAI AGGIORNATO

È vero che il piano era datato, risaliva al 2006, e tuttavia avrebbe potuto frenare l’espansione esponenziale dei contagi. Quel piano non era mai stato aggiornato come si sarebbe dovuto. Prevedeva che si svolgessero ogni tre anni esercitazioni gestite dal ministero e dalla regione. Non sono mai state fatte.

Col risultato che nessuno tra il personale medico e paramedico sapeva cosa fare quando è arrivata l’onda del virus che tutto ha travolto. All’ospedale di Alzano Lombardo, quello dei primi casi in Bergamasca del 23 febbraio, tanto per fare un esempio, per sanificare il pronto soccorso, l’infermiera capo si risolse, con un’iniziativa spontanea, a mettere in atto le procedure previste in caso di contaminazione con sostanze chimiche o di attacco terroristico. Altre non ne conosceva.

In quei giorni di caos straordinario, dirigenti a vario livello tra la regione le Ats e gli stessi ospedali, per le motivazioni più svariate, rallentarono o addirittura non presero mai le misure di contrasto al contagio che sarebbero state necessarie.

COSA SAPPIAMO ORA

Impreparazione, imperizia, ignavia: una somma di fattori che contribuirono a produrre la carneficina. Per coprire gli errori, alcuni si difesero dicendo bugie. Da qui un corollario di contestazioni che vanno dall’omicidio a lesioni colpose e falsità in atti pubblici.

Tutto questo sappiamo ora, e per tabulas, grazie proprio al lavoro dei magistrati di Bergamo così come sappiamo che i decisori politici furono influenzati da una varietà di elementi. Il timore di danneggiare l’economia chiudendo tutto e il timore di spargere il panico tra la popolazione già molto impaurita.

Minimizzare però, alla luce dei fatti, è servito solo a provocare danni maggiori. Siamo alla contestazione dell’invasione di campo del potere giudiziario sul potere esecutivo.

Isolare un’area implica valutazioni di carattere non solo sanitario: sono insindacabilmente esclusiva della politica? In un sistema come il nostro, basato sulla divisione dei poteri, sembrerebbe di rispondere positivamente al quesito. Ma vale anche in una materia delicata come la salute pubblica se poi non vengono applicati tutti i protocolli necessari a proteggerla in modo adeguato? Con questo corollario la risposta pare opposta e altrettanto scontata.

UNA CATENA DI ERRORI

Infine ci sarebbe la «volontà di riscrivere la storia con le sentenze». A parte il fatto che, come abbiamo visto, le sentenze sono eventuali e di là da venire, solo ora, tre anni dopo, è partito l’iter per l’istituzione di una Commissione parlamentare sul tema e chissà quali risultati porterà mai, sicuramente l’opera dei giudici di Bergamo, in realtà mastodontica e capillare, ha già avuto il pregio di acclarare la catena di errori che in Italia più che altrove ha prodotto la carneficina (188 mila morti da inizio pandemia).

Un lavoro che sarà utilissimo per il futuro se gli esperti sono unanimi nel ritenere che, nel mondo globalizzato e dove gli spostamenti continui di miliardi di persone sono una consuetudine assodata, altre pandemie ci saranno.

Non si tratta insomma di vaticinare “se” arriveranno ma “quando” arriveranno. E allora quanto acclarato potrà suonare come un memento.

Il procuratore Chiappani ha anche affermato: «La nostra indagine servirà non solo per valutazioni di carattere giudiziario, ma anche scientifiche, epidemiologiche, di sanità pubblica, sociologiche e amministrative».

Dunque anche se si è trattato di supplenza rispetto ad altri organi dello stato, in questo caso è stata supplenza benemerita. Addirittura insufficiente se di alcuni insegnamenti non è ancora stato fatto tesoro. Durante quei mesi tremendi c’era uno slogan, spesso ripetuto: «Ne usciremo migliori».

Con un’inflessione che chiamava il punto esclamativo. Quando sarebbe stato più opportuno il punto di domanda. Più di mille giorni dopo i decisori politici e amministrativi si sono dimenticati delle promesse di rivedere il modello della sanità lombarda, con grande spazio al privato e la noncuranza verso la medicina di base.

Fu la carenza di medici condotti e di piccoli ospedali di territorio che avrebbero fatto da filtro a provocare il collasso delle grandi strutture ospedaliere con un numero di posti in terapia intensiva largamente insufficiente al bisogno. È ancora così. Anzi è peggio.

In Lombardia e persino nella Valle Seriana martire ci sono migliaia di persone senza medico di base. Nulla è stato fatto per correggere le storture di un sistema che ha mostrato tutta la sua inadeguatezza. Se l’inchiesta di Bergamo servisse a indicare la strada, a fare un passo verso la giusta direzione allora, e sarà pure una frase fatta, ma le migliaia di vittime non sarebbero morte invano.

Gigi Riva

 

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