Fials-Confsal chiede il referendum dei lavoratori per il loro controllo a distanza

Nell’incontro dell’11 gennaio 2021, svolto in video-conferenza tra Asst di Cremona, Sindacati e Coordinatrice RSU, l’argomento di rilievo è stato la comunicazione aziendale(click) di dare un impulso importante, a dire aziendale, del controllo a distanza del patrimonio mobiliare ed immobiliare dell’azienda(click). L’azienda giura che non sarà attuato un controllo diretto sui lavoratori, ma poi afferma che se la Magistratura richiederà le prove su certi accadimenti non si esimerà dal presentarle.

Magari… la Magistratura interviene su sollecitazione aziendale… 

Inoltre, pare che si sorveglino anche i pazienti, come a dire che i pazienti sono entità a se stanti e nessun medico o infermiere mai si avvicinerà a loro per compiere atti sanitari che POTRANNO ESSERE GIUDICATI E/O CONTESTATI.

Insomma… una vera e propria “barzelletta del controllo”. BARZELLETTA GRAVISSIMA, che è stata rinviata per l’ulteriore confronto al prossimo 20 gennaio.
Anche un idiota comprende che è argomento delicatissimo ed importantissimo che merita la dovuta mobilitazione di tutti i dipendenti.

Da quanto succederà con la mobilitazione più o meno partecipata dei dipendenti dipenderà un tipo di controllo sui dipendenti stessi che potranno pagare “salato” e vivere la loro attività lavorativa sotto le forche caudine di un controllo asfissiante.

Poi non si dica… “ma… dov’era il sindacato! “.

Fials- Confsal propone da subito un referendum da indire da parte di tutti i sindacati (altrimenti non ha valore) e tra tutti i dipendenti per ottenere un’autodifesa, la più garantista possibile, attraverso la negoziazione di un accordo sindacale ben fatto, che spunti gli artigli aziendali. Non un accordo raffazzonato in otto giorni ! Addirittura già oggi completato dall’azienda che forse si aspettava già l’11 gennaio, quasi sicuramente, la firma dei soggetti sindacali dopo mezz’oretta di placido dibattito.

Da subito attraverso il link http://chng.it/6hsCTYxw ogni Lavoratore potrà aderire ad una precisa petizione che scongiuri un controllo aziendale foriero di prepotenze disciplinari e anche di un eventuale licenziamento disciplinare.

Insomma… attraverso i social oppure con tutte le forme altre possibili è bene, nei giorni a venire, con la massima urgenza, votare e consigliare di votare la petizione Fials-Confsal nella malaugurata ipotesi che le organizzazioni sindacali non vogliano dar corso ad un referendum sull’eventuale accordo con l’azienda.

NON CI SI PENTA POI DELL’EVENTUALE DISINTERESSE SULL’ARGOMENTO PERCHE’ CON UN ACCORDO CEDEVOLE LA FRITTATA SARA’ SERVITA SU UN BADILE! E POI… MEDICI E DIRIGENTI DEI DIFFERENTI RUOLI COSA NE PENSANO ? NON PENSANO OPPURE NON SANNO NULLA E VENGONO POSTI DI FRONTE AL FATTO COMPIUTO ? ANCHE LORO SONO LAVORATORI.

FINO AD ORA ERA RIMASTO IN VIGORE UN REGOLAMENTO “OBSOLETO”, DATATO 2010, ED IN SEGUITO AD UNA PRECISA SEGNALAZIONE CON RICHIESTA DI CHIARIMENTI INOLTRATA DA FIALS-CONFSAL – RIGUARDANTE IL SISTEMA DI VIDEO RIPRESE PRESSO IL PRONTO SOCCORSO DI OGLIO PO – E’ SPUNTATA L’ESIGENZA AZIENDALE DI “METTERSI IN REGOLA”… SI FA PER DIRE… MA SENZA RISPONDERE ALLA SEGNALAZIONE/CONTESTAZIONE DI FIALS-CONFSAL.
CHE CORRETTEZZA! CHE FURBIZIE!

Lo scritto che segue si focalizza sull’analisi del nuovo art. art. 4 dello st. lav. riguardante i controlli a distanza, così come modificato dal Jobs Act.

Partendo da un rapido esame della disciplina previgente, volto ad evidenziarne i principali limiti e le maggiori problematiche interpretative ed applicative, l’elaborato prosegue poi con un’attenta valutazione, comma dopo comma, della nuova formulazione legislativa: ne emerge che, in seguito al processo di attualizzazione della disciplina giuslavoristica, il legislatore ha deciso di concedere un più ampio ventaglio di poteri in capo al datore di lavoro, determinando una conseguente riduzione delle tutele e delle garanzie riconosciute ai lavoratori subordinati.

Il divieto generale previsto dall’originario comma 1 ha ceduto il passo ad una disposizione propositiva, la quale stabilisce ora quattro esigenze specifiche sulla base delle quali è possibile giustificare la legittima installazione di strumenti in grado di operare “anche” controlli a distanza.

Va poi segnalato anche l’inserimento, tra le quattro esigenze appena menzionate, della tutela del patrimonio aziendale, un’innovazione che, remando in senso opposto rispetto al generale tenore dell’articolo, rappresenta la risposta del legislatore alle numerose critiche mosse negli anni rispetto alla controversa categoria dei controlli c.d. “difensivi”.

Si consideri poi la modifica delle procedure concertative (sindacali ed amministrative), la quale, a differenza delle altre importanti innovazioni introdotte dalla riforma, è stata accolta con favore da entrambi, lavoratori e datori di lavoro.

Continuando poi l’analisi del nuovo art. 4 St. lav. si può notare l’inserimento ex novo sia del comma 2, il quale prevede una deroga a quanto stabilito dal comma 1 per gli “strumenti di lavoro” e per quelli di “di registrazione degli accessi e delle presenze”, sia del comma 3, il quale invece, ponendo la parola fine alle diatribe passate relative all’utilizzabilità delle informazioni ottenute, stabilisce ora la generale utilizzabilità delle stesse “a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro”.

Ciò che cambia rispetto al passato è dunque la disciplina generale a cui la stessa viene oggi affidata, ovvero quella generale di tutela della privacy. Questo è ciò che si evince dal richiamo esplicito all’obbligo di informativa nei confronti del lavoratore ed al rispetto del decreto legislativo n. 196 del 2003 presente al comma 3.

Nonostante ciò però, la portata generale del nuovo art. 4 St. lav. risulta ora completamente sbilanciata a tutto vantaggio dei datori di lavoro, i quali hanno visto nettamente dilatati i limiti precedentemente imposti ai loro poteri di controllo.

Ed inoltre, non possono nemmeno essere trascurate le numerose problematiche di tipo interpretativo e pratico connesse al testo della nuova disciplina: dalle conseguenze derivanti dall’eliminazione del divieto esplicito, all’individuazione della reale portata del concetto di “tutela del patrimonio aziendale” indicato al comma 1 e collegato alla problematica categoria dei controlli c.d. “difensivi”.

Dall’individuazione dell’ambito applicativo della deroga contenuta all’interno del comma 2, fino ad arrivare all’utilizzabilità generale delle informazioni prevista dal comma 3 ed al suo possibile contrasto con principi costituzionali e penali presenti nel nostro ordinamento.

Nonostante siano trascorsi diversi anni dalla riforma del 2015, tali tematiche risultano ancora particolarmente controverse e le soluzioni applicative tutt’altro che a portata di mano. Cercando di mettere in luce le principali questioni emerse in seguito all’entrata in vigore della nuova disciplina, lo scopo dello scritto vuole essere quello di spiegare come, in seguito alla recente riforma, la tutela della privacy e della riservatezza del lavoratore subordinato sia stata ulteriormente compromessa.

Alla base di questo evidente peggioramento è possibile individuare il sempre maggiore utilizzo di nuove tecnologie informatiche e digitali in ambito lavorativo, potenzialmente in grado di controllare costantemente l’attività svolta dal lavoratore durante l’orario di lavoro.

Si aggiunge inoltre, anche l’atteggiamento sempre più acritico ed accondiscendente del legislatore nei confronti di tali problematiche: lo stesso, infatti, anziché cercare di porvi immediato rimedio, ha preferito conformarsi all’atteggiamento del comune consumatore, il quale a stento percepisce la pericolosità degli strumenti che ogni giorno utilizza. Tutto ciò ha permesso ai datori di lavoro di porre in essere controlli sempre più profondi e pericolosi, sollevando questioni di rilievo sia civile, sia penale che disciplinare.

PIU’ IN DETTAGLIO

Dopo l’autunno caldo del 1969, i lavoratori italiani videro l’emanazione di una legge che garantiva loro molti diritti, relativi all’attività sindacale e alla tutela dei dipendenti sui posti di lavoro, denominata Statuto dei lavoratori (Legge n. 300 del 1970), per la sua ampiezza, innovazione ed organicità. La legge n. 300, come recita il suo stesso titolo, tutelava la libertà e la dignità del lavoratore, tanto che all’art. 4 sanciva il divieto assoluto di utilizzare sistemi audiovisivi e di altro genere per controllare a distanza l’attività del lavoratore.

L’art. 23 del D. Lgs. n. 151/2015, attuativo del cosiddetto “Jobs Act” (ossia legge delega n. 183/2014 ad opera del governo servo del padrone presieduto da Matteo Renzi) ed integrato, successivamente, dal D. Lgs. n. 185/2016, ha introdotto importanti modifiche rispetto alla possibilità del datore di lavoro di controllare l’attività lavorativa svolta dai propri dipendenti; pertanto, l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori oggigiorno risulta riformulato come di seguito riportiamo:

Art. 4.

Impianti audiovisivi.

  1. Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo con RSU/RSA, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione delle sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. I provvedimenti di cui al terzo periodo sono definitivi.

  2. La disposizione di cui al comma 1 non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze.

  3. Le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 [GRAVISSIMO].

Prima della riforma voluta dal Jobs Act, il divieto di utilizzare impianti audiovisivi e altre apparecchiature ai fini di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, era assoluto. Con l’evidente, macroscopico ed innegabile progresso tecnologico degli ultimi anni, che ha investito anche il mondo del lavoro, la normativa è stata peggiorata a fronte di esigenze organizzative e produttive cambiate, per spiare i lavoratori.(Un politologo ed un sociologo, in verità, si interrogherebbero sui mutati rapporti politici e di forza tra le classi sociali, in un contesto socio-economico divenuto più liberista e globalista, ma non è questa la sede di certe disamine).

Così, nel novellato art. 4 è stato eliminato l’esplicito divieto di controllo a distanza dell’attività del dipendente e sono state individuate le condizioni e le finalità per le quali è permessa l’utilizzazione degli apparecchi che consentono di controllare la prestazione lavorativa.

Come si legge al primo comma dell’art. 4, si è specificato che gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche un controllo a distanza dell’attività dei lavoratori (ad esempio, gli impianti di videosorveglianza, la bodycam, i sistemi di geolocalizzazione installati sui veicoli aziendali, et cetera) possono essere utilizzati dall’imprenditore esclusivamente per esigenze di carattere organizzativo e produttivo, di sicurezza del lavoro e di tutela del patrimonio aziendale mobiliare ed immobiliare.

Pertanto, il controllo sull’attività del lavoratore (sull’attività, non sul lavoratore!) rimane vietato, a meno che non avvenga in maniera incidentale e non in costanza di un monitoraggio prolungato [GRAVISSIMO],proprio perché la ratio dello Statuto dei Lavoratori è quella di tutelare la libertà, la dignità del dipendente e, a partire dal D. Lgs. 196/2003, anche la sua privacy.

Affinché l’installazione e l’uso degli apparecchi di monitoraggio siano legittimi, oltre alle motivazioni sopracitate, l’art. 4 richiede un accordo sindacale, da stipularsi con le RSA o le RSU o con i sindacati più rappresentativi sul piano nazionale, nell’ipotesi di imprese localizzate in più siti sul territorio del Paese.

In assenza di tale accordo sindacale, occorre l’autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro. In mancanza di accordo o del provvedimento alternativo di autorizzazione, l’installazione dell’apparecchiatura è illegittima e penalmente sanzionata, oltre che dagli articoli 162, comma 2 ter, 171 e 172 del D.Lgs. n. 196/2003 (Codice della Privacy) e dall’art. 38 della legge n. 300/1970, anche dall’art. 28 St. Lav., per condotta anti-sindacale.

“A ben vedere, la ragione – per la quale l’assetto della regolamentazione di tali interessi è affidato alle rappresentanze sindacali o, in ultima analisi, ad un organo pubblico, con esclusione della possibilità che i lavoratori, uti singuli, possano autonomamente provvedere al riguardo – risiede, ancora una volta, nella considerazione della configurabilità dei lavoratori come soggetti deboli del rapporto di lavoro, questione che viene in rilievo essenzialmente con riferimento all’affermazione costituzionale del diritto al lavoro e con riferimento alla disciplina dei rapporti esistenti tra il datore di lavoro ed il lavoratore, sia nella fase genetica che funzionale del rapporto di lavoro. La diseguaglianza di fatto e quindi l’indiscutibile e maggiore forza economico – sociale dell’imprenditore, rispetto a quella del lavoratore, dà conto della ragione per la quale la procedura codeterminativa sia da ritenersi inderogabile, potendo alternativamente essere sostituita dall’autorizzazione della direzione territoriale del lavoro, nel solo caso di mancato accordo tra datore di lavoro e rappresentanze sindacali, ma non invece dal consenso dei singoli lavoratori, poiché, a conferma della sproporzione esistente tra le rispettive posizioni, basterebbe al datore di lavoro fare firmare a costoro, all’atto dell’assunzione, una dichiarazione con cui accettano l’introduzione di qualsiasi tecnologia di controllo per ottenere un consenso viziato dal timore della mancata assunzione”. (Cass. Pen. Sez. III, n. 22148 dell’08.05.2017)

Il secondo comma dell’art. 4 della Legge 300/1970, invece, sottolinea che le limitazioni e le procedure descritte al primo comma non si applicano all’uso degli strumenti di rilevazione degli accessi e delle presenze (lettori di badge, orologi marca-tempo) e degli strumenti di cui i lavoratori vengono dotati per lo svolgimento della loro attività, quando l’accesso ad essi sia personalizzato per ogni lavoratore (ad esempio: PC, tablet, carte di credito, telefoni, telepass, etc.).

Il terzo ed ultimo comma dell’art. 4 precisa che il datore di lavoro può utilizzare le informazioni raccolte col controllo a distanza (comma 1) e con gli apparecchi di cui ha dotato i suoi dipendenti (comma 2), ma solo per i fini connessi al rapporto di lavoro, e purché i lavoratori siano informati adeguatamente sulle modalità d’uso di tali strumenti e sui modi con cui verrà esercitato il controllo e sempre nel rispetto delle norme del D.Lgs. n. 196/2003 (Codice della Privacy), almeno fino al 25 maggio 2018, quando diverrà applicabile il Reg. U.E. 2016/679 sulla privacy.

Pertanto, una volta che il datore di lavoro abbia fornito ai propri dipendenti adeguata informativa circa le discipline e le regole aziendali inerenti all’utilizzo delle apparecchiature e ai controlli e abbia rispettato la normativa sulla riservatezza, gli elementi raccolti tramite tali strumenti potranno essere utilizzati anche per verificare la diligenza del dipendente nello svolgimento del proprio lavoro, con tutti i risvolti disciplinari e di altra natura che ne conseguiranno. In sintesi, il datore di lavoro, attraverso le informazioni raccolte, può effettuare una contestazione ed arrivare a irrogare sanzioni disciplinari di ogni grado.

Qualora, però, il lavoratore non sia adeguatamente informato i dati raccolti non saranno utilizzabili a nessun fine, essendo venuta meno la funzione garantista dell’informativa che, prevista all’art. 13 del Codice della Privacy, costituisce uno dei capisaldi di tale impianto normativo.

La possibilità di utilizzare apparecchi audiovisivi sui luoghi di lavoro potrebbe potenzialmente comportare un vulnus al diritto alla riservatezza del lavoratore, dal momento che la strumentazione di controllo è supportata dalla moderna tecnologia informatica ed elettronica; proprio per questo motivo, l’Autorità Garante della Privacy è intervenuta con il recente provvedimento n. 547/2016, diffuso il 17 febbraio 2017 con la newsletter istituzionale n. 424, nella quale ribadisce che l’accesso indiscriminato alla posta elettronica o ai dati personali contenuti negli apparecchi in dotazione al personale, per estrarre informazioni private, è un comportamento illecito. Anche in una decisione del 13 luglio 2016, il Garante della Privacy statuisce che “verifiche indiscriminate sulla posta elettronica e sulla navigazione web del personale sono in contrasto con il Codice della Privacy e con lo Statuto dei Lavoratori“.

A fortiori sono illegittime e vietate forme di controllo al di fuori dell’orario di lavoro, ossia nel tempo libero, delle ferie, del riposo: tali informazioni non sono consentite perché incidono sulla dignità e sulla privacy del lavoratore. L’interpretazione dell’art. 4 deve ispirarsi ad un bilanciamento fra le disposizioni costituzionali che garantiscono il diritto alla dignità e alla libertà del lavoratore e del cittadino (artt. 1,3, 35 e 38 Cost.) ed il libero esercizio della attività imprenditoriale (art.41 Cost.).

Dello stesso parere la C.E.D.U.: la Corte di Strasburgo ha ritenuto violato l’art. 8 della Convenzione CEDU in tema di tutela della riservatezza professionale e della vita privata, poiché le istruzioni di un datore di lavoro non possono limitare la vita privata e sociale del lavoratore sul posto di lavoro. Il rispetto per la privacy della corrispondenza continua a sussistere, sebbene limitato per quanto necessario. Tocca ai giudici nazionali assicurare che il monitoraggio da parte dei datori di lavoro della corrispondenza e altre comunicazioni sia accompagnata da garanzie adeguate ed efficaci contro gli abusi (CEDU, Grande Camera, sent. 5 settembre 2017, ric. n. 61496-09).

In pratica, i controlli a distanza, ammessi a seguito delle modifiche disposte con l’art. 23 del D. Lgs. 14 settembre 2015, n. 151, non consentono un controllo (anche indiretto) massivo, prolungato e indiscriminato sull’attività dei dipendenti.

La violazione che potrebbe configurarsi, in questo caso, oltre a quella sanzionata dagli articoli summenzionati, è anche quella dell’art. 8 dello Statuto dei Lavoratori, che vieta di effettuare indagini sulle opinioni politiche, religiose e sindacali del lavoratore, e sui fatti non rilevanti ai fini della valutazione della sua attitudine professionale. In proposito la Corte di Cassazione, con sentenza n. 18302 del 19 settembre 2016, ha ritenuto che già solo l’acquisizione e la conservazione dei dati che contengono tali informazioni integrano la condotta vietata.

La sfida sta tutta nel conciliare la facoltà del datore di lavoro di verificare l’esatto adempimento della prestazione lavorativa ed il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro da parte dei dipendenti, con la salvaguardia della libertà e della dignità dei lavoratori (che verrebbero distrutte dall’estrazione dei dati privati contenuti nei software aziendali installati all’interno degli apparecchi), applicando i principi di liceità e correttezza dei trattamenti di dati personali, nonchè tutti gli altri principii che informano la disciplina della tutela della privacy.

Certo è che la tecnologia elettronica ed informatica, che ormai pervade quasi tutti gli strumenti a disposizione dei lavoratori, rende difficile la distinzione tra apparecchi neutri e strumenti atti al controllo (pensiamo solo al fatto che persino il nostro telefonino personale può essere localizzato…) (1)

L’attività lavorativa non può essere sorvegliata e non si possono effettuare riprese per verificare l’osservanza dei doveri di diligenza e correttezza nell’esecuzione della prestazione lavorativa del dipendente. “La modifica dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori fonda su una presa d’atto del legislatore in base alla quale le nuove tecnologie, soprattutto telematiche, hanno superato la dicotomia, contenuta nell’art. 4 Stat. Lav., tra strumento deputato al controllo del lavoratore (ex comma 1 dell’art. 4) e strumento di lavoro (ex comma 2 dell’art. 4) perché taluni strumenti telematici, sconosciuti quando fu varato lo Statuto dei lavoratori, costituiscono nell’attuale sistema di organizzazione del lavoro, “normali” strumenti per rendere la prestazione lavorativa, pur realizzando nello stesso tempo un controllo continuo e capillare sull’attività del lavoratore” (Cass. Pen., III Sez., sent. 51897 del 6/12/2016). Pertanto, la riservatezza e la dignità del lavoratore non devono venir meno, pur nel mutato contesto storico e tecnologico, che si riverbera anche in quello normativo.

(1) Secondo la circolare 2/2016 dell’ Ispettorato Nazionale del Lavoro, il Gps montato sull’automobile aziendale non sarebbe uno strumento di lavoro. L’Ispettorato nazionale del lavoro ritiene infatti, che i sistemi di geolocalizzazione rappresentino un elemento «aggiunto» agli strumenti di lavoro, utilizzati non per eseguire la prestazione lavorativa ma per soddisfare ulteriori esigenze di carattere assicurativo, organizzativo, produttivo o per la sicurezza del lavoro. Pertanto, data la loro potenzialità di controllo a distanza dei lavoratori, questi dispositivi possono essere installati solo a seguito di accordo sindacale o autorizzazione amministrativa. In tal senso la circolare corregge il parere della direzione interregionale del Lavoro di Milano, del maggio 2016, che aveva ritenuto, al contrario, che l’auto fornita in uso ai dipendenti fosse sicuramente strumento di lavoro, e lo fosse nella sua totalità, comprensiva anche del sistema Gps, pur se installato in un momento successivo alla consegna dell’autovettura.

 

 

 

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